Pubblicato il: 22 Marzo 2017

Avremo sempre Parigi

Il difficile rapporto di Donald Trump con il cambiamento climatico.


Il rombo di un aereo in partenza, la nebbia che offusca l’orizzonte e le figure di un uomo e di una donna di profilo con un cappello e un impermeabile. Lei indugia, è disposta a rischiare tutto per restare, lui non le lascia altra scelta. “Avremo sempre Parigi”, le dice, immortalando un amore che rimarrà per sempre vivo grazie al ricordo di quel breve tempo felice.

Insomma, il finale di Casablanca. Humphrey Bogart, Ingrid Bergman. Epico.

Come non pensare, ironicamente, a quella battuta quando il presidente Trump ha annunciato il 1 giugno l’uscita degli Stati Uniti dal trattato sul clima siglato a Parigi nel 2015. Un “c’eravamo tanto amati”, ma forse anche no, all’Europa, alla diplomazia internazionale, alla scienza e al mondo intero. Un salto di quasi vent’anni nel passato, da quando nel 2001 un altro presidente repubblicano George W. Bush, aveva deciso di uscire dal Protocollo di Kyoto, ritardandone il processo di entrata in vigore di otto anni, fino al 2008.

Un breve excursus storico. Gli Stati Uniti ebbero un ruolo fondamentale nei negoziati per la Convezione Quadro delle Nazioni Unite sul clima nel 1992, quando alla Casa Bianca c’era Bush padre, e per quelli sul Protocollo di Kyoto nel 1997, durante l’amministrazione di Bill Clinton. Dopo la defezione del 2001 gli Usa hanno mantenuto un atteggiamento più passivo e a volte ostruzionistico nei negoziati sul clima. Arriva alla presidenza Barack Obama. In tempo di piena crisi economica fallisce a Copenhagen nel 2009 il tentativo di trovare un accordo che succedesse al Protocollo di Kyoto in prossima scadenza. Quello smacco segna un cambio di atteggiamento nella diplomazia internazionale ambientale. Gli Usa siglano nel 2014 un’intesa con la Cina, che contribuisce a superare le storiche divergenze sulle responsabilità degli impegni di riduzione e si approda agli accordi di Parigi nel 2015. Un successo. Una partecipazione unanime di tutti i 197 paesi del mondo e, nonostante non sia ancora un accordo legalmente vincolante, una buona volontà progettuale.

Il numero sufficiente di ratifiche per l’entrata in vigore si raggiunge nell’aprile del 2016. Nel novembre dello stesso anno giunge alla presidenza Donald Trump, che mantiene subito la promessa fatta in campagna elettorale e ritira gli Stati Uniti, seconda potenza mondiale in termini emissivi dopo la Cina, dal trattato di Parigi.

“Make the America great again”, cosi scrive il Presidente annunciando la notizia ai suoi follower su Twitter. E nel giardino delle Rose alla Casa Bianca, a conclusione di un fine concerto jazz, con la maggior parte dell'amministrazione schierata in prima fila, e lo sguardo compiaciuto di Scott Pruitt, il nuovo direttore dell’EPA, l’agenzia ambientale americana e noto negazionista del cambiamento climatico di orgine antropica, comunica al mondo la sua decisione.

Con toni enfatici chiarisce l’impossibilità per gli Usa di sostenere un’intesa economicamente punitiva per il paese, un accordo che favorisce in maniera deliberata altre nazioni come la Cina e l’India, permettendo loro di continuare ad emettere, e forse anche arricchirsi, a spese dell’America. Il presidente afferma che le regole del Trattato costringono gli Stati Uniti a ridurre le proprie emissioni secondo obiettivi più stringenti rispetto al resto del mondo e a pagare un pegno più pesante al  Fondo verde per il clima, lo strumento di finanziamento necessario per permettere ai paesi più poveri di affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici e prevenirne quando possibile le conseguenze. Ha sottolineato come l’impegno per l’ambiente, secondo quanto stabilito dal Trattato, vada a scapito dei lavoratori, dei cittadini che pagano le tasse, degli imprenditori, di tutto il comparto manifatturiero americano e dell’industria del carbone, che riceverebbe il colpo peggiore, con il conseguente rischio di perdita di posti di lavoro, salari più bassi e diminuzione della competitività.

L’accordo, in sintesi, non è in linea con il principio faro dell'amministrazione Trump, quello “dell''America First”, secondo cui il presidente sta agendo dall’inizio del suo mandato.

"Lavoreremo perchè gli Usa siano leader delle politiche ambientali - ha aggiunto - ma con oneri ugualmente divisi tra le nazioni di tutto il mondo". Anche questo un passo indietro di vent’anni, che calpesta i due principi cardine delle politiche ambientali. Quello delle responsabilità comuni ma differenziate, con i maggiori obblighi di riduzione sulle spalle dei paesi industrializzati, che il cambiamento climatico l’hanno creato e quello dello sviluppo sostenibile, che dovrebbe consentire anche ai paesi in via di sviluppo di progredire economicamente nel rispetto dell’ambiente. In aggiunta, nemmeno la promessa del presidente di lavorare per ottenere un “accordo migliore” sembra essere nè fattibile nè coerente con la struttura del Trattato, il quale non può essere rinegoziato ma essendo non vincolante, permette ad ogni paese di  stabilire il proprio impegno volontario nella riduzione delle emissioni. Il che rende di fatto l’uscita dal Trattato non realmente necesssaria ai fini di una revisione degli impegni e tantomeno immediata, esistendo una clausula temporale di quattro anni prima di liberarsene. Paradossalmente, quindi, gli Usa saranno svincolati dall’accordo nello stesso momento delle prossime elezioni presidenziali.

L’opposizione interna non ha tardato a farsi sentire. Il sindaco di New York Bill De Blasio, le grandi corporations, scienziati, premi Nobel per l’economia, società civile, persino l’ex governatore della California, il repubblicano Arnold Schwarzenegger, che durante il suo mandato ha puntato tutto sulle politiche ambientali, sulle energie rinnovabili, sull’emission trading, rendendo la California il primo stato ambientalmente sostenibile ed economicamente potente degli Stati Uniti. In un messaggio indirizzato direttamente al Presidente, ha rimarcato la necessità di investimenti sempre più cospicui per la protezione ambientale, affermando che la California proseguirà sulla strada green localmente ed in maniera indipendente. Stessa posizione hanno assunto molte altre città, fra cui Pittsburgh, che il Presidente ha menzionato nel suo discorso affermando di “essere stato eletto per rappresentare Pittsburgh e non Parigi”, senza nemmeno considerare che proprio quella città durante le elezioni aveva votato per l’80% Hillary Clinton.

Invece che indebolire l’accordo, la decisione di Washington sembra però rafforzare la volontà degli altri paesi di andare avanti da soli. La spinta generata a Parigi sembra essere irreversibile e potrebbe avere un forte impatto politico per il futuro. La Cina ha riaffermato il proprio impegno nella riduzione delle emissioni, Germania, Francia e Italia si sono schierate per ancora maggiori sforzi, nella speranza che la defezione degli Stati Uniti possa portare nel tempo ad una ripresa della coesione europea, che sembra aver ora perso l’alleato e il protettore di sempre.

Le politiche ambientali ed energetiche devono prescindere dall’appartenenza politica. Non è più possibile continuare a negare l'indispensabilità di una trasformazione e il protezionismo, il nazionalismo, il negazionismo, concetti attraenti per raggiungere facili consensi, non possono essere considerati una soluzione efficace per affrontare le innegabili sfide climatiche attuali.

“Make our planet great again” fa eco a Donald Trump il neoeletto presidente francese Emmanuel Macron, che si espone con parole forti e rimarca la presenza della Francia e dell’Europa unita nell’azione per il clima.

Si, allora forse avremo, ancora, davvero, Parigi.