Pubblicato il: 26 Febbraio 2021

Chi prima arriva, prima guarisce

La guerra dei vaccini si vince in velocità. La Gran Bretagna insegna lezioni preziose?


Un incidente di percorso, un cavillo interpretativo, una differenza di vedute, ma tutto nell’ambito del rispetto dei contratti, così è stata definita la controversia sui vaccini fra il Regno Unito e l’Unione Europea. Ma in realtà, è in atto una dura competizione, su chi li possiede, chi li riceverà prima, chi li accetterà. Sono stati prodotti in un tempo brevissimo e ora si deve affrontare il problema della produzione e della distribuzione di massa.

Ad accendere il contenzioso è stato, il 22 gennaio scorso, l’annuncio da parte di AstraZeneca di un taglio del 60% delle consegne all’UE nel primo trimestre a fronte di forniture regolari alla Gran Bretagna. 

In una situazione di mancanza di forniture la casa farmaceutica si è premurata di rispettare l’impegno con il primo sottoscrivente contrattuale in termini cronologici, il Regno Unito, che aveva dato l’approvazione al vaccino già a fine dicembre.

Il CEO di AstraZeneca, Pascal Soriot, ha evidenziato la sostanziale mancanza di un obbligo di adempimento da parte dell’azienda nei confronti dell’Unione Europea, essendo stata firmata una tipologia di contratto che prevedeva la clausola del “best effort”, ovvero “fare il proprio meglio per raggiungere lo scopo”, senza però vincolarsi legalmente alla riuscita del risultato promesso.

L’Unione Europea ha invece interpretato la mossa di Londra come un chiaro intento di garantire le forniture innanzitutto al proprio paese e in risposta ha tentato di attivare la clausola di sicurezza contenuta nell’accordo della Brexit firmato a dicembre, il famoso articolo 16 del Protocollo, che consente ad entrambe le parti di ristabilire i controlli sulle merci alla frontiera tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord in caso di sospetta violazione economica, sociale o ambientale.

L’Unione ha quindi minacciato di introdurre un meccanismo di notifica e autorizzazione per l’export di vaccini con l'obiettivo di evitare che forniture di siero entrassero nel Regno Unito. E ha rischiato di provocare nuove tensioni a ridosso di quel confine irlandese che è stato il principale nodo per cui la Brexit è stata rimandata per così tanti anni.

La decisione ha provocato l’immediata reazione di Dublino, che ha costretto la Commissione a ritornare sui suoi passi, in una situazione che si è definita come la prima crisi diplomatico-giuridico-istituzionale nei rapporti tra Bruxelles e Londra dopo la Brexit.

Ora ci sono i mea culpa della Commissione, che dopo essersi offesa per il comportamento del Regno Unito, ha imparato la lezione, cercando di accelerare sulle autorizzazioni e creare una catena di produzione e distribuzione stabile, mentre la Gran Bretagna, che in pieno stile british si giustifica con freddezza ed eleganza senza mai fare autocritica, continua orgogliosamente per la sua strada secessionista, distaccandosi sempre di più dai vicini continentali e affinando le armi per ciò che sarà il futuro.

Senza pur mai menzionare la Brexit, la strada indipendentista che il Regno Unito ha intrapreso è evidente anche nella strategia nazionale per i vaccini.

Dalla firma del contratto con AstraZeneca tre mesi prima rispetto all’Europa, alla volontà di non aspettare la certificazione da parte dell’EMA, alla corsa alla vaccinazione di massa che ora vanta il numero più alto del mondo con circa 15 milioni di cittadini,  il 19% della popolazione britannica contro appena l'1,5% di quella dell'UE, fino ad arrivare alla scelta di ritardare la seconda dose per massimizzare la quantità di persone che possono essere immunizzate.

Il divorzio semifelice dall’Unione Europea aleggia come uno spettro su ogni discussione, su ogni scelta, su ogni conseguenza e sicuramente non fa altro che inasprire il dialogo.

La campagna di vaccinazione è una pubblicità per la Brexit migliore di quanto persino i Brexiteers avrebbero mai potuto immaginare. La Gran Bretagna appena liberata dalle catene pachidermiche dell’Europa, sta ora dimostrando di cosa è capace, nell’autonomia decisionale della propria efficiente capacità organizzativa.

I vaccini per il Covid sono ancora una grande scommessa, rimangono da comprendere molte variabili, la prevenzione dall’infettività, il funzionamento sui gruppi di persone più a rischio, l’efficacia di lungo termine e servono dati, test, statistiche che possano guidare le aziende produttrici e i governi nelle loro scelte e i cittadini nella loro consapevolezza.

Sempre di più si avrà bisogno di dati aggiornati, di studi sulle mutazioni del virus, sulla possibilità di modificare i vaccini, sull’efficacia della protezione dalla trasmissione.

Dati che dovranno essere pubblici, reperibili e condivisi in solidarietà, la parola che più di tutte si sente pronunciare in questo momento.

L'Unione Europea non ha, e non avrà mai, la flessibilità che può avere un paese singolo, è una semplice confederazione con i soli poteri che i suoi stati membri sono disposti a darle, eppure durante questa pandemia ha dimostrato, nonostante i ritardi, le difficoltà, le inziali incongruenze, di rispettare il principio di solidarietà e sicurezza, sia per quanto concerne la ripresa economica, con l’istituzione del Recovery Found, sia nei riguardi della strategia per i vaccini.

“Nessuno è al sicuro, finchè tutti non saranno al sicuro”, si dice ora, ma se in linea teorica è vero ed è un bel concetto, nella pratica allo stato attuale l’offerta di vaccini non incontra la domanda.

E quindi ogni paese si sta accaparrando la sua parte, soprattutto il Regno Unito che in questo momento si trova in una delle condizioni peggiori fra i paesi d’Europa, e contrappone alla solidarietà un tipo di risposta trumpiana al problema della pandemia, “il mio paese per primo”, nella presunzione che ogni stato sia responsabile della sicurezza e del benessere solo di coloro che vivono nel suo territorio.

La battaglia per il vaccino AstraZeneca solleva dunque questioni etiche più profonde.

Su chi merita l'accesso prioritario a un farmaco salvavita, su chi dovrebbe avere una via preferenziale  per la vaccinazione nel contesto globale.

Una pandemia non è una gara, nè una classifica, nè una vetrina per dimostrare la propria efficienza. Vaccinare la popolazione più velocemente di altri paesi non dovrebbe essere motivo di orgoglio, e di certo una prospettiva nazionalistica al problema fallisce nel cogliere la natura stessa di una pandemia, globale, senza confini.

Vedremo quale approccio sarà il migliore, a posteriori.