Pubblicato il: 19 Maggio 2021
La Germania è uno dei più grandi emettitori di gas serra al mondo.
Ma è anche uno degli stati che nel mondo si è da sempre speso di più per la protezione del clima, prendendo posizioni di rilievo all’interno dell’Unione Europea e nei confronti della comunità internazionale.
Ha annunciato l’uscita dal nucleare e dalla dipendenza dal carbone, ha puntato solidamente sulle energie rinnovabili e la transizione energetica, e nel 2019 ha presentato un piano storico in politica ambientale, quello che viene chiamato “la legge tedesca della protezione sul clima” che punta a ridurre almeno del 55% le emissioni di CO2 al 2030, rispetto ai livelli del 1990.
Portando avanti lo stesso obiettivo su cui l’Unione Europea ha da poco raggiunto un accordo politico, in vista del traguardo della neutralità climatica al 2050, il Piano del 2019 è incentrato su un meccanismo di verifica annuale per garantire che vengano raggiunti gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra principalmente nel settore dell’energia, dei trasporti e del riscaldamento.
Angela Merkel, chiamata da sempre, fra gli altri appellativi, “la Cancelliera del clima”, con questo piano ha così rivendicato questo riconoscimento, riappropriandosi di un ruolo attivo nelle politiche ambientali che negli ultimi anni le era stato contestato per mancanza di concretezza nell’azione.
Al varo del piano tedesco sul clima, la Merkel pronunciò una frase che divenne molto popolare: “la politica è ciò che è possibile”. Per indicare la fattibilità di quanto si stava proponendo come obiettivi di riduzione e la responsabilità politica di garantire risultati.
Oggi, nel 2021, a fine aprile, la Corte Costituzionale Federale tedesca ha stabilito che quella legge è in parte incostituzionale perché non fa abbastanza per il clima, perchè l’assenza di indicazioni dettagliate sulle modalità di riduzione delle emissioni non garantisce il rispetto del Trattato di Parigi.
E così ha corretto la massima merkeliana con un’altra ancora più potente. “La politica dev’essere ciò che è necessario”.
La storia ha inizio però un anno prima. A febbraio del 2020, un gruppo di giovani attivisti climatici di Fridays for Future e di associazioni ambientaliste come Greenpeace e Germanwatch, si erano rivolti alla Corte Costituzionale contro la legge tedesca sul clima, denunciandone l’eccessiva vaghezza negli obiettivi di protezione climatica, e dichiarando che la mancanza di sostanzialità avrebbe messo a rischio alcuni diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, come quelli della libertà, della proprietà e della salute.
Il tribunale, che fino a questo momento, aveva sempre evitato di prendere posizione sulle questioni legate al clima, ha invece sostenuto che se nei prossimi dieci anni, entro il 2030, si farà troppo poco per contrastare il cambiamento climatico, si dovranno poi tagliare le emissioni con ancora più velocità e intensità nei venti anni successivi, per arrivare a raggiungere la neutralità emissiva nel 2050. E questo comporterà il rischio concreto di comprimere diritti e libertà fondamentali delle persone, soprattutto quelle più giovani, lasciando “alle generazioni successive un fardello di limitazioni radicali”.
In particolare, i giudici hanno definito la crisi climatica come una questione di libertà, una libertà che il tribunale ha legato al clima, la libertà futura dei giovani di domani, negata dalla quantità di anidride carbonica di oggi, dalla mancata protezione del clima di oggi.
Sentiremo parlare ancora molto di questo concetto negli anni a venire. Questa sentenza ha aperto un mondo di possibilità.
Bisognerà quindi mantenere alto il prezzo dei diritti di emissione, anticipare l’abbandono del carbone, vietare i motori a combustione, lavorare per la riduzione delle emissioni non solo nel settore energetico, ma anche in quello dell’edilizia e dei trasporti.
E soprattutto, bisognerà necessariamente prevedere nella discussione sul clima, il concetto di "giustizia climatica", nozione che rende la crisi ambientale inserita in un quadro che va oltre il raggiungimento della transizione tecnologica ed energetica, e che ha a che vedere con la questione fondamentale dei diritti civili e sociali.
La crisi climatica aggrava ineguaglianze e disparità storiche e strutturali, soprattutto tra paesi ricchi e paesi poveri, che sono quelli più esposti agli effetti dei cambiamenti climatici per la loro conformazione geografica e impatta su molti settori economici e produttivi che si trovano esposti al rischio di eventi climatici estremi.
La sentenza della Corte Costituzionale Federale si inserisce in questo contesto e ricorda quanto già affermato da Christiana Figueres, segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e una dei costruttori dell'Accordo di Parigi: “ciò che faremo per quanto riguarda la riduzione delle emissioni da qui al 2030 determinerà la qualità della vita umana su questo pianeta per centinaia di anni a venire”.
La posta in gioco è davvero alta e l’esigenza di cambiamento e concretezza di azioni, anche a seguito di tutto ciò che il mondo ha subito e continua a subire a causa della pandemia, è sempre più pressante.
La politica non può più sottrarsi a fare quanto è necessario.