Pubblicato il: 10 Febbraio 2015
India e Stati Uniti, due paesi agli antipodi, due protagonisti opposti. Eppure, progetti che si incontrano.
Narendra Modi, 63 anni, è il neoeletto presidente del subcontinente indiano, ex commerciante di tè di origini umili, ex militante di un’organizzazione paramilitare di estrema destra, estremista, nazionalista e nuclearista. Prima del suo incarico da presidente fu per anni governatore dello stato del Gujarat. Personaggio controverso e secondo alcuni persino pericoloso, con uno stile dispotico che ha provocato più di una critica, è però riuscito ad accaparrarsi un’enorme popolarità nel paese.
Sarà perché durante il suo governo la regione si è fortemente sviluppata da un punto di vista economico, grazie soprattutto ad una politica di sgravi fiscali e di sostegno all’imprenditoria, ora milioni di indiani vogliono che il “modello Gujarat” sia esportato in tutto il paese, con la promessa di un miglioramento generalizzato dell’economia e della società.
L’India, infatti, sulla scia della Cina della quale ha sempre emulato vie e modalità di crescita, si sta ora imponendo quale nuovo attore di punta nel panorama asiatico, conquistandosi il terzo posto come più grande emettitore di CO2, destinato a diventare la terza economia del mondo e mostrando una sempre maggiore autonomia decisionale dal gigante cinese, del quale non apprezza più esserne considerato una compagine. Nonostante le derive poco incoraggianti della sua personalità, il nuovo presidente indiano sta manifestando una volontà progressista e persino ambientalista, tanto da aver accolto con grande fervore le proposte avanzate da Obama per un’azione congiunta USA-India su clima ed energia, con investimenti nelle rinnovabili, efficienza energetica, emissioni di gas serra, tecnologie low-carbon, infrastrutture energetiche intelligenti, nonché campagne di informazione e sensibilizzazione sul tema e la creazione di professionalità adeguate.
Anche a Delhi, come a Pechino, si vedono ora le conseguenze devastanti dell’impetuosa crescita, monumenti nazionali nello smog, pedoni e vigili con le maschere alla bocca in un vano tentativo di non respirare i vapori fetidi, bambini soffocati nelle aule, città fantasma coperte da una fitta coltre di nebbia di polveri sottili, veleno per i polmoni. Constatando la gravità della situazione Modi esorta quindi l'India a crescere per compiere il salto economico mantenendo però un occhio particolarmente attento alla sostenibilità dello sviluppo, in una industrializzazione che non incrementi gli effetti collaterali già comunque visibili nelle città. Rispetto alla Cina, l’India ha subito iniziato con riforme di mercato e mentre la Cina è stata inondata da tecnologie e metodologie produttive estremamente inquinanti, basate sull’industria pesante, l'India possiede invece un settore dei servizi più sviluppato e sul quale sta puntando il suo modello di crescita.
Il presidente Obama, in visita in India un paio di settimane fa, dal canto suo, sta chiaramente focalizzando sulle questioni ambientali l’attenzione degli ultimi due anni del suo secondo mandato, rendendole così il perno su cui ruoterà la diplomazia internazionale del futuro, soprattutto in vista dell’imminente conferenza di Parigi nel dicembre 2015. Nonostante la controversa rivoluzione dello shale gas, promossa dall’amministrazione statunitense per giungere all’autonomia energetica, Obama non dimentica che le politiche per il clima passano necessariamente dalle energie rinnovabili e dall’efficienza energetica. Dopo la débâcle di Copenaghen nel 2009, sembra che gli stati stiano comprendendo la necessità di arrivare a quell’appuntamento non con delle fumose dichiarazioni di principio quanto con dei veri e propri impegni che verranno resi vincolanti dalla firma dell’accordo. Il precedente trattato ambientale stipulato dagli Stati Uniti con la Cina, ed ora la collaborazione con l’India, sembrano veicolare il messaggio secondo il quale gli stati potrebbero aver finalmente compreso che la riuscita della più importante conferenza internazionale sul clima dopo Kyoto, possa dipendere, per la maggior parte, dalla predisposizione alla mediazione dei maggiori paesi inquinatori. Nella speranza, poi, che anche gli Stati Uniti si arrendano infine alla sottoscrizione di impegni vincolanti, Cina e India potrebbero concedere maggiori margini di trattativa nei negoziati sentendo i lori interessi tutelati grazie agli accordi precedentemente stipulati con gli Stati Uniti.
Il rinnovato interesse di Obama ai temi ambientali è quanto mai percepibile anche in politica interna con la proposta, avanzata durante l’approvazione del bilancio, di riservarne un’ingente parte per politiche di adattamento e mitigazione e di tagliare gli incentivi e le agevolazioni fiscali alle industrie del carbone e del petrolio. Il progetto fa di certo esultare gli ambientalisti, ma inasprisce lo scontro con la maggioranza iperconservatrice ed ecoscettica del Congresso americano, incontrando le ire dei repubblicani e delle lobby di categoria.
Gli interventi sono molti, e includono l’aumento dei finanziamenti all’Environmental Protection Agency, per sostenere le politiche di riduzione delle emissioni a livello dei singoli stati, nonché investimenti in programmi di resilienza, prevenzione e assistenza climatica ai paesi in via di sviluppo, nelle energie rinnovabili e nella ricerca scientifica nel campo. Tali finanziamenti sarebbero compensati dalla riduzione, di 4 miliardi di dollari, degli incentivi e degli sgravi fiscali alle compagnie petrolifere e del carbone, misura che tuttavia prevedrebbe il reintegro in altri settori dei lavoratori impiegati nelle miniere che verrebbero chiuse. I fondi potrebbero quindi costituire le fondamenta per sostenere e creare decine di migliaia di posti di lavoro americani in particolare nell’eolico e nel solare e consentirebbero una transizione fluida verso nuove opportunità.
Obama questa volta ha lanciato una sfida importante, sia nel suo paese sia a livello internazionale, su più fronti ambientali, energetici e climatici. La battaglia interna sarà dura, anche perché il bilancio dovrà essere approvato da Camera e Senato, dominati dai repubblicani e gremiti di lobbysti delle energie fossili. C’è però da dire che se questi dovessero mantenersi su posizioni troppo intransigenti e rigettare le proposte del presidente, rischierebbero davvero di mostrare all’opinione pubblica americana e mondiale il loro vero volto.
A quel punto cosa sarebbe peggio?