Pubblicato il: 21 Ottobre 2013
Gli scienziati lavorano senza sosta, gli studi cominciano a diffondersi e la comunità scientifica inizia timidamente a prenderne atto: esiste una correlazione tra le attività di fracking per l’estrazione dello shale gas e i sismi che avvengono in prossimità delle trivellazioni.
Uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori della Columbia University, pubblicato sul Journal of Geophysical Research, dimostra come i movimenti della terra, seppur di piccole dimensioni, che si sono protratti nel corso di un anno nei dintorni di Youngstown, in Ohio, siano stati causasti dalle attività di estrazione che si svolgevano nei dintorni. Un altro gruppo di scienziati statunitensi ha pubblicato sulla rivista Geology uno studio che associa al fracking il terremoto di magnitudo 5.7 che ha colpito l’Oklahoma nel dicembre del 2011, distruggendo case e strade e provocando due vittime.
Lo shale gas, o gas di scisto, è un particolare tipo di gas naturale intrappolato all’interno di microporosità presenti in conformazioni di rocce argillose, di solito localizzate ad una profondità fra i 2000 e i 4000 metri. Il fracking, o fratturazione idraulica, è il processo di estrazione dello shale gas. Esso si basa sull’immissione nel terreno di ingenti quantità di acqua dolce ad alta pressione, trattata con sabbia e agenti chimici, che favoriscono la rottura della roccia in corrispondenza dei pori dai quali si libera il gas da convogliare in superficie. E’ un metodo molto invasivo e molto articolato nelle sue fasi, in quanto, prima di procedere con l’effettiva fratturazione, risulta necessario ispezionare il pozzo tramite perforazioni verticali e orizzontali. Le trivellazioni, unite ai getti d’acqua e alle microfratture in profondità nel terreno, creano smottamenti nel suolo, contaminazione delle falde e impatti di lungo termine sugli ecosistemi a causa dei reflui che si disperdono dal pozzo.
Inoltre, se alle ripercussioni dirette sull’ambiente, si aggiungono le fuoriuscite di metano derivanti dall’attività e la CO2 prodotta dal successivo trasporto e dalla combustione del gas stesso a seguito dell’utilizzo, il reale mix di costi-benefici derivante dello sfruttamento di questo gas potrebbe condurre a risultati non incoraggianti. E’ necessario considerare infine, le notevoli incertezze e le numerose lacune che continuano a persistere nella conoscenza scientifica e tecnica sugli effettivi impatti e sulle potenzialità dello shale gas.
Nonostante tutto, esso viene definito come la nuova frontiera dell’energia, tanto che gli Stati Uniti hanno reso lo sfruttamento di questo gas il caposaldo della propria politica energetica ed economica.
L’interesse allo shale è cresciuto soprattutto negli ultimi dieci anni, da quando l’aumento del prezzo del gas convenzionale ne ha reso evidente l’opportunità economica e il contemporaneo miglioramento dell’apparato tecnologico per l’estrazione ne ha reso più fattibile la produzione.
Gli Usa stanno mettendo in atto una vera “rivoluzione” dello shale gas, proprio come la Germania sta facendo con le energie rinnovabili. La “energienwende” americana, come la gemella tedesca, si pone l’obiettivo di raggiungere una sostanziale indipendenza dalle importazioni attraverso lo sviluppo di un’autosufficienza energetica, basata sulle sole, o quasi, risorse nazionali. Eppure, mentre la politica energetica tedesca mira ad un primato solo europeo, quella americana sta invece mostrando una volontà “egemonica” differente, che vede nella riduzione dei prezzi energetici e in una massiccia politica di esportazioni, la via per rilanciare l’economia e la competitività nazionale in periodo di crisi. L’impatto del boom energetico americano, che sta peraltro aprendo nuove prospettive di sviluppo sui mercati globali, potrebbe comportare ripercussioni anche sul piano geopolitico dei rapporti di forza fra gli stati. Alla lunga, infatti, gli Usa potrebbero minacciare il primato della Russia, prima produttrice mondiale di energia e seconda di gas naturale dopo gli Stati Uniti e prima esportatrice di questi prodotti, ricreando un’atmosfera di tensione da “guerra fredda”. Le scelte americane, inoltre, potrebbero determinare un minore interesse per il petrolio mediorientale e l’entrata in gioco di un altro imponente soggetto, la Cina, il cui territorio è provvisto di numerosi giacimenti di shale gas.
Anche l’Europa si sta interrogando sulle effettive potenzialità di questa risorsa naturale, in un misto di attenzione e sospetto. L’Unione si mostra comunque restia a procedere in mancanza di un quadro scientifico chiaro in merito agli impatti ambientali della tecnologia di estrazione, il fracking è stato infatti inserito nella Direttiva sulla Valutazione di Impatto Ambientale in ottemperanza del principio di precauzione di cui l’Europa si fa portavoce. Un quadro eterogeneo emerge però osservando le reazioni dei vari stati. In presenza di una scarsa disponibilità di giacimenti nel suolo europeo, la Germania e la Francia ritengono il fracking una metodologia troppo invasiva in proporzione alle reali potenzialità estrattive, mentre in Polonia continuano le esplorazioni e in Gran Bretagna si stanno stanziando ingenti investimenti in questa nuova tecnologia.
Una domanda sorge a questo punto spontanea. A quale prezzo possono essere ottenuti gli obiettivi di una maggiore sicurezza dell’approvvigionamento, un contenimento dei prezzi dell’energia, il perseguimento di una sempre maggiore indipendenza energetica, una maggiore competitività nazionale e il miglioramento della situazione economica interna? Perché considerare così allettante una fonte energetica tanto rischiosa, che non porterà a soluzioni definitive, ma allevierà solo temporaneamente la pena pur aggravando la malattia? E perché mai non concentrare gli sforzi economici e tecnologici per una “rivoluzione” delle energie rinnovabili?
La risposta possibile sottende una visione dell’ambiente molto diffusa. Mentre si proclama la necessità di trovare alternative ai combustibili fossili e soluzioni per una maggiore sostenibilità ambientale, si continua nel contempo a mantenere schemi tradizionali di pensiero secondo cui l’ambiente viene ancora percepito come un bacino di sfruttamento.
Questa nuova concezione, mediata fra posizioni reazionarie e progressiste, è frutto del complesso cambio di prospettiva che il mondo sta compiendo a seguito della constatazione delle evidenti contraddizioni di una crescita non più illimitata.