Pubblicato il: 19 Maggio 2015
Dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, dopo l’11 settembre e la “fatwa” nei confronti dell’Occidente, dopo l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria e le stragi dell’Isis, dopo l’avanzata della Cina e il risveglio dell’imperialismo russo, dopo la crisi economica globale, oggi, il fantasma del comunismo non esiste più.
La dicotomia ideologica che ha atterrito l’America e l’intero mondo per cinquant’anni si è sgretolata nel tempo sotto il peso del proprio fallimento.
L’America deve aver compreso che ben altri ora sono i pericoli da cui guardarsi le spalle, diverse le battaglie da combattere, così come nuovi devono essere i mezzi da utilizzare, non più l’isolamento, non più le bombe, non più la contrapposizione del “noi e loro”, ma l’arte diplomatica dell’incontro.
“Non sono interessato a combattere battaglie iniziate prima che nascessi", così Obama ha introdotto il nuovo corso della storia americana, consacrando l’ultimo periodo della sua presidenza come quello in cui l’America sembra voler assurgere ad ambasciatrice mondiale di un dialogo di pace fra i popoli. Dopo aver lottato per anni nel tentativo di liberare gli Stati Uniti dal peso delle guerre intraprese da George W. Bush, ora, grazie alla distensione con Cuba e il trattato con l’Iran, Obama sta cercando davvero di meritare quel premio Nobel per la pace che gli è stato insignito forse con troppa fretta nel secondo anno del suo mandato.
Quel “Todos somos Americanos” gridato dallo stesso Obama nel dicembre 2014 a conclusione del discorso che ha dato l’avvio al disgelo con Cuba, implica una svolta ideologica rivoluzionaria.
Per la prima volta la baldanza imperialista degli Stati Uniti si è fatta da parte di fronte al riconoscimento dell’unità politica e sociale dell’intero continente, dal Nord a Sud, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, da New York a L’Avana, dove yankee, nativi, ispanici e afroamericani possano riuscire a convivere da cittadini e figli di una stessa patria, oltrepassando il confine dell’incomunicabilità. Forse pura utopia. Eppure oggi, sono proprio gli Stati Uniti, terra di contraddizioni e disuguaglianze, crogiolo di lingue e culture, dove aleggia ancora pesante l’eredità del razzismo e dell’emarginazione, ad aver finalmente ceduto all’incontro con un mondo per definizione antitetico. Quella stretta di mano spontanea, non prevista, fra il presidente americano e Raul Castro, a conclusione del Summit delle Americhe tenutosi a Panama lo scorso mese, è avvenuta fra la folla e lo sguardo incredulo e compiaciuto dei principali leader mondiali, fra cui il segretario delle Nazioni Unite, consapevoli della portata storica del momento. Un gesto che ha riaperto rapporti congelati dal 1961, anno della rivoluzione castrista e relazioni commerciali bloccate dall’embargo del 1982, quando l’isola venne inserita nella lista dei paesi sostenitori del terrorismo. Dichiarando lo smantellamento dello statuto delle sanzioni e l’uscita di Cuba dalla lista nera degli stati canaglia, l’America ha riconosciuto il proprio errore. L’embargo non ha portato a nessun risultato e non ha in alcun modo indebolito il regime dei Castro, che ha potuto per anni perpetrare una politica assolutista, abolendo ogni forma di opposizione e mantenendo i cittadini in un sistema chiuso, a livello economico e sociale.
Da quella stretta di mano si aprono ora per Cuba e per gli Stati Uniti, nuove prospettive. Sarà l’isola caraibica a riceverne i maggiori benefici, verranno facilitati i viaggi per turismo e affari, aperte vie di comunicazione, costruite infrastrutture, incentivato l’uso delle tecnologie informatiche e maggiormente tutelati la libertà di espressione e i diritti umani. E nel contempo, gli Stati Uniti potranno garantirsi di fatto una maggiore benevolenza da parte di tutta quell’America Latina che ha sempre visto in Cuba un avamposto per la rivendicazione di tutti i diritti da sempre negati. Senza considerare le ripercussioni più meramente politiche che assicureranno ai democratici statunitensi un indubbio vantaggio elettorale in vista delle prossime elezioni presidenziali, grazie al voto dei tanti cittadini cubani residenti in Florida, paese da sempre ago della bilancia nelle presidenziali, oramai lontani dall’appeal ideologico del regime castrista.
In tutto questo, infine, ecco inserirsi la figura di Francesco Bergoglio, garante silenzioso nel processo di riavvicinamento fra gli storici contendenti. Il Papa latinoamericano, che predica valori plurali, che non vuole una Chiesa schiacciata su una sola ideologia, si è ormai guadagnato un ruolo di primo piano nel panorama del mondo contemporaneo e ha permesso al Vaticano di tornare ad essere un crocevia d’interesse internazionale, come lo fu con Woytila ai tempi della caduta del Muro di Berlino. Già Fidel in passato aveva individuato nella Chiesa di Roma l’interlocutore preferenziale per uscire dall’isolamento dopo il 1989, studiava Wojtyla con interesse, si recò in Vaticano e consentì al Pontefice una visita sull’isola. Il comunismo non vacillò, ma il messaggio papale di apertura al mondo risuonò forte. E, come suo fratello Raul venticinque anni dopo, anche Fidel affidò al Papa un ruolo politico fondamentale, elogiandone la caratura personale e morale.
Oggi, tuttavia, si è fatto un passo avanti ulteriore. A Francesco Bergoglio, infatti, è stato riconosciuto anche il valore di leader religioso, tanto da prospettare per Cuba un possibile ritorno alla Chiesa e ai valori dello spirito. Una tale affermazione, pronunciata solennemente da chi un tempo vietò il Natale, risuona come un segno più che tangibile che qualcosa di grande è davvero avvenuto. Affidandosi al messaggio papale per non sentirsi completamente risucchiato dalla vastità della potenza americana, Castro si aggrappa ora con forza a quella voce lontana, percepita in qualche modo familiare, che torna a proporre il disegno universale di una società egualitaria e sembra raccogliere in sé l’eredità di un mondo scomparso, fra l’impeto trascinante di Bolivar e il fascino magnetico di Guevara.
Il cambiamento a Cuba non sarà né radicale né immediato, ma avrà di certo il merito di consacrare con onore la fine di una revolución ormai obsoleta e asfittica, chiusa nel ricordo del proprio glorioso passato, costantemente lacerata fra sentimenti di repulsione e attrazione per un sogno americano che non ha mai smesso di esercitare la sua influenza. Una revolución che sarebbe stata destinata a perire con la scomparsa dei due Castro e che invece, ora, grazie alla stretta di mano di Panama, potrà continuare ad esistere come uno dei migliori successi della storia umana.