Pubblicato il: 01 Dicembre 2020

Un excursus storico

Dal 2016 al 2020, un periodo che ha segnato la storia.


E’ affascinante guardare l’evoluzione del mondo.

Era il 2016 l’ultima volta che gli eventi presero una piega piuttosto radicale. Anno bisestile, come questo 2020. Iniziammo a giugno, con la vittoria del sì al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ed arrivammo a novembre con la vittoria di Donald Trump, l’outsider della politica americana, che mise fine a otto anni di amministrazione democratica di Barack Obama.

Quello che è seguito lo sappiamo bene.

Anni di caos e rimbalzi nel Regno Unito, fino ad arrivare alla fine dell’anno scorso all’elezione a premier di Boris Johnson con un’acclamazione nazionale al grido di “Get Brexit Done”, che ha decretato la fine ingloriosa di Jeremy Corbin alla guida del partito laburista.

Nel contempo gli Stati Uniti hanno cambiato volto. Hanno portato avanti politiche coerenti con la “dottrina Trump”, quella dell’“America First” e del “Make America Great Again”, con l’obiettivo di “proteggere il lavoro, gli stipendi e il benessere dei cittadini americani” prima di ogni altro interesse esterno. Si sono chiusi nella loro fortezza protezionista, sciogliendosi da accordi e istituzioni internazionali, si sono allontanati dal multilateralismo nelle relazioni estere, sono entrati in conflitto con la Cina, hanno tifato per la Brexit e si sono distanziati dall’Unione Europea. Internamente, hanno rafforzato la loro economia riducendo le tasse, semplificando la fiscalità e deregolamentando,  abolendo le leggi ambientali che imponevano restrizioni alle industrie del carbone e del petrolio, difendendo la produzione nazionale e chiudendo i confini. Tutto stava funzionando nei canoni di quello che ci si sarebbe aspettato da un presidente come Trump, ortodossamente repubblicano, i cui modi plateali, sebbene sollevassero scalpore nella comunità internazionale, creavano insieme un sempre maggiore senso di affiliazione nel suo elettorato e un paese di fatto in fase di prosperità.

Poi è arrivata la pandemia.

Si è assistito allo spettacolo di un presidente che ha minimizzato il problema, fino ad alimentare teorie complottiste e negazioniste, tardando a prendere misure, deridendo la scienza, e rendendo il virus una battaglia ideologica, tanto che l’uso della mascherina è diventato un simbolo di appartenenza politica.

E mentre la pandemia era nel culmine della prima ondata sono iniziate le più estese proteste razziali da quelle per i diritti civili negli anni ’60, a seguito dell’uccisione di un uomo afroamericano da parte di un agente della polizia, bianco. Il contesto in cui è accaduta, il momento storico, il video del fatto ripreso in diretta e diventato virale sui social, hanno scatenato un’ondata senza precedenti di manifestazioni in molte città degli Stati Uniti, a cui sono seguiti scontri e una dura repressione e una presa di coscienza dell’opinione pubblica mondiale sui diritti ancora negati delle minoranze nere, le più colpite dalla pandemia negli Stati Uniti.

Abbiamo assistito ad una campagna elettorale dai toni tragici e  grotteschi, con un presidente che già affermava che non ci sarebbe stato un passaggio di consegne pacifico e che già denunciava brogli.

L’elezione è poi avvenuta, e ci ha tenuti incollati per giorni in un testa a testa senza fiato prima dello spoglio delle ultime schede che hanno decretato Joe Biden e Kamala Harris come squadra vincente. Donald Trump, come annunciato, ha dichiarato battaglia. Ha preteso il riconteggio dei voti, ha gridato all’elezione truccata e alla vittoria rubata, e continua a proclamarsi vincitore, al di là di ogni prova dimostrabile. I ricorsi continuano a venire rigettati, la nuova squadra di governo è già pronta e resa nota, così come le prime misure che verranno messe in atto nei primi 100 giorni di mandato. E tutti, l’opinione pubblica, la stampa mondiale, i capi di stato e di governo, persino il Papa, hanno riconosciuto Joe Biden come nuovo presidente, tranne Donald Trump, il partito repubblicano e i 70 milioni di persone che hanno votato per lui. Ed è questo il dato principale da tenere in considerazione, esattamente quasi la metà degli Stati Uniti, addirittura 10 milioni di voti in più rispetto al 2016, ha continuato a credere in lui. Nelle elezioni più partecipate da 120 anni, se Biden è il candidato più vecchio e più votato nella storia americana, Trump è stato il secondo.

Cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stata la pandemia e il movimento di protesta sociale, non lo potremo mai sapere. I commentatori e gli analisti sono unanimi nell’affermare che Biden avrebbe avuto ben poche speranze, sicuramente meno di quante ne ha avute ora.

La nuova presidenza abbasserà i toni, cambierà lo stile e le modalità e ripristinerà quello che Kamala Harris e Biden stesso hanno chiamanto “decency”, decenza, e lavorerà per riunire il paese nel segno dell’unità nazionale, affrontando come annunciato tutte le crisi in cui versa il paese ora, sanitaria, economica, razziale, climatica e di rappresentanza democratica. La direzione che Joe Biden intraprenderà in molti casi comporterà ribaltare quello che ha fatto, o non fatto, l’amministrazione Trump, istituire una task force per contrastare l’epidemia, rafforzare la legge sanitaria di Obama, predisporre un piano di ripresa economica, rientrare nell’accordo sul clima di Parigi e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, salvare l’accordo sul nucleare iraniano, ricostruire i rapporti con l’Unione Europea e con la NATO. Sebbene, tuttavia, ci siano delle tendenze, già in atto prima di Trump e che con lui hanno avuto il suo culmine, che non potranno radicalmente cambiare direzione, soprattutto in politica estera relativamente al ruolo internazionale degli Stati Uniti e ai rapporti con la Cina.  

La sfida per Biden è davvero di portata storica, da una parte dovrà dimostrarsi all’altezza dei voti  presi, mantenerli e curarli, dall’altra dovrà saper dialogare anche con quell’altra metà di America e capire come poterne catalizzare i bisogni con argomenti e contenuti diversi.