Pubblicato il: 14 Febbraio 2017

Dal tramonto all’alba

Una maratona per decidere il futuro della Terra. Dopo il Protocollo di Kyoto arriva il Trattato di Parigi sul clima. 


Dodici giorni e dodici notti di negoziati e sedici ore finali senza sosta per arrivare al testo definitivo.

La storia dei trattati internazionali ambientali è fatta di grandi tour de force. Finalmente, nella prima serata del 12 dicembre 2015, il ministro degli esteri francese e presidente della Conferenza delle Parti numero 21, Laurent Fabius, picchia tre volte il martelletto sul tavolo e dichiara conclusa la sessione. “E’ un piccolo martello, ma può fare grandi cose. L’accordo di Parigi sul clima è stato adottato”, disse, parafrasando quel famoso astronauta che nel 1969 camminò per primo sulla luna.

A distanza di meno di un anno, nel novembre del 2016, l’accordo è entrato in vigore, grazie al raggiungimento delle firme di 55 stati nel processo di ratifica corrispondenti al 55% delle emissioni globali.

I rappresentanti di 195 Paesi, tra premier e capi di Stato, media e delegazioni della società civile, si sono riuniti a Parigi per cercare soluzioni condivise per affrontare il cambiamento climatico. E garantire al mondo una continuità nel processo diplomatico che dalla Conferenza delle Parti del 1997, che sfociò nell’adozione del Protocollo di Kyoto, ha portato al meeting di Copenaghen del 2009, vertice denso di aspettative ma paralizzato dallo scontro di interessi tra le superpotenze.

Qualcosa è però cambiato da allora. Con l’accordo di Parigi la prassi della policy internazionale in campo ambientale ha mutato approccio. Dall’imposizione di obiettivi nazionali dall’alto, si è passati ad un concezione bottom up, con la definizione da parte dei singoli stati del proprio impegno di riduzione, consentendo quindi al nuovo accordo di assumere la forma di obiettivi nazionali a carattere volontario.

Un’importante svolta geopolitica si era poi delineata nel 2014, durante l’incontro fra l’ex Presidente Barack Obama e Xi Jinping, il primo ministro cinese, che in quell’occasione aveva annunciato la volontà di mettere in atto un piano ambizioso per la riduzione delle emissioni a livello nazionale con l'obiettivo di limitarne la crescita entro il 2030. Un annuncio epocale, che ha mostrato un radicale mutamento nell’atteggiamento della leadership cinese. Da sempre reticente nei confronti degli impegni per la lotta al cambiamento climatico e spinta da un trading, come strumenti di policy privilegiati volti a ridurre le emissioni, invitando i Paesi ad utilizzarli in maniera cooperativa. Ci si potrà quindi aspettare nel prossimo futuro il pullulare di sistemi di emission trading a livello locale, sulla stregua dell’esempio già in atto della California o dei neonati programmi ETS cinesi, la cui vera sfida sarà quindi la capacità di collegamento e di sostanza economica.

Il Trattato di Parigi entrerà poi in vigore nel tardo 2020, in concomitanza con l’inizio della quarta fase per il sistema di emission trading europeo. Per l’EU ETS, dal 2013 in terza fase e alle prese con il surplus di quote e l’abbassamento del prezzo dei permessi, sarà quindi ora di aprire le porte ad una riduzione decisa delle emissioni e alla salvaguardia di quei settori industriali più esposti al rischio di delocalizzazione delle produzioni a causa dell’imposizione dei vincoli ambientali.

In un tale quadro, tuttavia, pur con le migliori intenzioni dichiarate dagli stati, si annida l’ombra della defezione dagli impegni. E l’esito delle elezioni americane non ha certamente fornito buoni auspici per il futuro.

Le dichiarazioni del neopresidente Donald Trump, che ha promesso il ritiro degli Stati Uniti dal trattato, il blocco dei finanziamenti ai programmi ambientali delle Nazioni Unite e lo stop alle politiche verdi della precedente amministrazione Obama, non aiutano la creazione di quella base di fiducia e cooperazione necessaria per sostenere l’onere della riduzione delle emissioni.

Se ciò dovesse avvenire, ci si può ragionevolmente chiedere quanto inciderà l’abdicazione statunitense sulla volontà degli altri stati di proseguire sulla strada della lotta al cambiamento climatico.