Pubblicato il: 02 Dicembre 2014
Una massima del genere, che inevitabilmente implica una critica alle dinamiche del capitalismo, alle sue contraddizioni e ai suoi limiti, non può che far diventare il libro che la contiene, un best seller.
O quantomeno, questo è ciò che accade sovente al giorno d’oggi.
Persino i politici, in cerca di una ricetta per uscire dal tunnel della crisi, cominciano ad interessarsene. L’ultimo, Sigmar Gabriel, vicecancelliere e ministro dell'economia e dell'energia nel terzo governo Merkel, ha particolarmente apprezzato il “grande scenario”, “l’approccio visionario” e “la capacità di sfidare l’umore collettivo dominato dall’ansia per il futuro e dal pessimismo” dell’ultima fatica di Jeremy Rifkin, guru della green economy che, con “La società a costo marginale zero”, ha decisamente fatto il botto. Proprio come Thomas Piketty con il suo “Capitale del Ventunesimo secolo”. Milioni di copie, infatti, sono state infatti vendute, fra Europa, Stati Uniti e Cina, del libro dell’economista e saggista statunitense, da sempre attivo in studi per la sostenibilità ambientale ed energetica delle comunità umane, nonché fortemente interessato alla ricerca di modelli economico-sociali che potessero compensare gli squilibri creati dal capitalismo o addirittura fornirne soluzioni differenti.
C’è chi, come Rifkin, chiama tali modelli “collaborative commons”, chi “peer-to-peer systems” e chi, ancora, li assembla nel nome più generico di “sharing economy”, strutture di produzione e consumo basate sul concetto di partecipazione e condivisione. In ogni caso, tutte risposte alternative per un’economia globale in piena crisi di identità.
Tuttavia, constatando i trend più evidenti delle società attuali, si può arrivare a pensare che l’economia della condivisione sia uno dei paradigmi che si stanno maggiormente diffondendo. Sempre più, infatti, i cittadini-utenti scelgono di condividere servizi, oggetti, esperienze e competenze, riducendo i costi e favorendo l’evolversi e il rinsaldarsi di valori “relazionali” ai quali non si può dare un prezzo.
Così, ci si trova compartecipi di un mondo in cui si offre e si accetta un viaggio in macchina con sconosciuti che vanno nella stessa direzione, o un letto in una casa in una qualsiasi parte del mondo; ci si regala i vestiti che non si mettono più, si comprende la piacevolezza di un pasto comune o un momento di svago in compagnia con persone estranee, si mettono a disposizione le proprie conoscenze tecniche, magari al prezzo di un paio d’ore di ripetizione, ci si scambia musica, film, libri. Un mondo in cui si condivide anche l’energia, quella del sole e dal vento, che viene autoprodotta e redistribuita, o addirittura una realtà che giunge a bypassare le tradizionali strutture produttive arrivando a fabbricare oggetti dal nulla. Basta una stampante che sappia plasmare la materia e trasformarla in una copia tridimensionale. Questa è la sharing economy proposta da Rifkin, l’economia del futuro incentivata dall’esplosione delle tecnologie digitali che porta in sé tutti i criteri innovativi della green economy e aggiunge una componente di maggiore rottura con il sistema, tanto da essere considerata da molti l’antidoto al materialismo e al consumismo che la crisi ha messo in assoluta evidenza.
Rifkin ipotizza, quindi, la nascita di una nuova società e di una nuova forma economica, spinta da quella che lui definisce come la “Terza Rivoluzione Industriale”, in cui una gigantesca rete globale e interconnessa, definita “l’Internet delle cose”, che permette la convergenza “dell’Internet delle comunicazioni, dell’energia e della logistica”, farà scorrere, a disposizione dell’intera umanità, miliardi di dati in ogni momento. Grazie alla supremazia delle tecnologie digitali, secondo Rifkin, si arriverà a spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale dei beni e servizi potrà essere quasi azzerato, tanto da rendere, in sostanza, i beni non più soggetti alle forze del mercato. E nel contempo si ridurrà il costo delle informazioni, dell’energia, delle risorse materiali, del lavoro e della logistica necessari per produrre, distribuire e riciclare beni e servizi, con una conseguente contrazione dell’uso di risorse e minori emissioni di gas serra nell’atmosfera.
Questa nuova era evolutiva dei sistemi socio-economici trasformerà il modo di organizzare la vita schiudendo la possibilità a una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l'economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile.
Grazie al carattere distribuito e paritario del nuovo sistema, milioni di piccoli soggetti, diventati ora “prosumers”, un po’ produttori e un po’ consumatori, saranno messi nelle condizioni di cooperare nei “Commons collaborativi”, instaurando una positiva coesistenza con i soggetti che prima detenevano il monopolio delle relazioni economiche e che ora perderanno lo storico ruolo di arbitro esclusivo.
Alla luce di quanto detto viene però spontaneo domandarsi come. Come l’intero sistema economico globale riuscirà a riconfigurarsi secondo altri principi. E Rifkin in questo senso non sembra fornire spiegazioni adeguate. Potrà la tecnologia soppiantare i nessi di causa-effetto da sempre esistenti nei rapporti economici, riuscirà poi a far nascere quel sentimento di “socialità”, che nella sua visione dovrà diventare il fulcro delle comunità del futuro? Che ruolo si affida all’autogestione e all’inventiva dal basso e quanta parte, invece, ci si aspetta provenire da una volontà politica dall’alto?
In ultima analisi, anche Rifkin si arrende di fronte a queste domande ed affida alla sola visione politica, lungimirante e onnicomprensiva, la reale ed effettiva risposta.