Pubblicato il: 14 Ottobre 2014
Qualora ci fosse stato il rischio di una perdita di appeal della tradizionale assegnazione dei premi Nobel, quest’anno il Comitato di Oslo, destinando ad una ragazzina pakistana di diciassette anni il premio per la pace, ha senza dubbio trovato il modo per concentrare nuovamente l’attenzione internazionale sul valore di questo prestigioso riconoscimento, non esente, peraltro e come sempre, da perplessità e critiche.
E’ piuttosto frequente, infatti, soprattutto in merito al Nobel per la pace, constatare la periodica presenza di malcontento nella scelta delle nomine, a volte considerate premature, altre volte forse poco opportune o comunque spesso sottilmente rispondenti ad appartenenze ideologiche e a circostanze mediatiche particolari che di fatto sembrano snaturare il grande valore simbolico del premio.
Se l’ambito attestato può essere definito come la massima ricompensa per vite vissute e agite all’insegna della lotta per un ideale, i contenuti politico-sociali, inevitabilmente presenti in esso, cambiano nel tempo e mutano all’avvicendarsi delle narrazioni mediatiche prevalenti.
A livello internazionale e geopolitico questo è infatti un momento di grande complessità analitica, attraversato da una nuova ondata di estremismi provenienti dall’Oriente che si contrappongono all’Occidente con violenza e seminano nelle loro stesse terre uno stato di terrore e sudditanza.
Quest’anno, dunque, la designazione dei due premi Nobel per la pace sembra aver messo d’accordo tutti, unendo simboli, contenuti, concretezza, ideologie ed esprimendo con lucidità alcune importanti caratteristiche del nostro tempo.
Malala Yousafzay è un’adolescente. Già attiva dall’età di undici anni, questa ragazzina tiene un blog sul sito della BBC, dove denuncia pubblicamente le vessazioni dei talebani, contrari ai diritti delle donne e le violenze perpetrate dall’occupazione militare nel distretto dello Swat, dove lei viveva. Viene allora presa di mira dalla vendetta del regime, che la ferisce gravemente con colpi di pistola in un attentato nel 2012, all’uscita da scuola. Ma il suo destino non è quello di morire in quel momento. Infatti Malala si salva e si trasferisce in Inghilterra dove continua gli studi ed intensifica il suo attivismo, che la condurrà, nel luglio del 2013, a parlare di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e a vincere, nello stesso anno, il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. La sua ascesa culmina infine con il conferimento del Premio Nobel per la pace, un punto di arrivo mediatico, massima credenziale per essere ascoltata e accettata dalla comunità internazionale come voce autorevole e potente, ma appena l’inizio per la sua attività umanitaria. Non si può quindi che rimanere spiazzati dalla velocità e dall’intensità con cui questa bambina prodigio ha portato avanti la sua battaglia per la rivendicazione del diritto all’istruzione delle donne e dei bambini nel suo paese e in tutti i luoghi in cui questo diritto viene negato. “Una penna può diventare un’arma pericolosa” dice Malala, ma la stessa penna, se data in mano ad una giovanissima donna che con voce dolce e ferma ribadisce l’importanza della scuola e dell’educazione e auspica una modernizzazione del pensiero e delle condizioni di vita della popolazione pakistana oppressa dall’integralismo talebano, può trasformarsi, poi, in una vera e propria bomba. Malala ha compreso che gli estremisti temono il potere dell’educazione e del progresso culturale ed assoggettano le donne ad una condizione di schiavitù per mantenere con più facilità il controllo in un mondo tribale, ignorante e maschilista, che si nutre di terrore e di facili e distorte dottrine, che abusa del nome dell’Islam a proprio personale beneficio, secondo una lettura oscurantista e violenta della Sharia. Realtà, questa, che accomuna pressoché ogni gruppo fondamentalista, dai talebani del Pakistan e dell’Afghanistan, all’Isis in Siria e in Iraq, al gruppo armato Boko Aram in Nigeria che peraltro porta come vessillo principale proprio la lotta all’educazione femminile e alla modernità “occidentale”.
“Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo”, con queste parole piene di ardore giovanile, indossando lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto, con lo sguardo limpido e la voce ferma e risoluta nel suo convincimento, Malala aveva incantato nel 2013 l’Onu e il mondo intero. Ed aveva ricordato a tutta l’umanità la presenza di migliaia di attivisti che come lei, quotidianamente, portano avanti un’opera di lotta al fondamentalismo religioso senza farsi zittire dalla paura della morte, nonché le azioni di tutti quei musulmani moderati, la quasi totalità se ben consideriamo, che si dissociano pubblicamente dalle idee e dai metodi degli estremisti.
Oggi, per il conferimento del Nobel, Malala riprende e amplia questi concetti, in un discorso non retorico, ma saggio e concreto, insistendo sulla necessità per le donne di acquisire un’identità non solo in quanto madri, mogli e figlie, ma in quanto esseri umani. Diritti che per gli occidentali appaiono inalienabili e scontati, ma che in una buona parte di mondo bisogna ancora conquistare.
Malala ha inoltre diviso il Nobel con un’altra persona, Kailash Satyarthi, operatore sociale indiano per i diritti dell’infanzia, di 60 anni, che in decenni di lotta non violenta ha salvato almeno 80.000 bambini dalla schiavitù e dalle violenze.
Un segnale importante, questo, che potrebbe peraltro accomunare due realtà costantemente in conflitto, simboleggiando la possibilità di un dialogo fra pakistani e indiani, fra musulmani e indù, attraverso una collaborazione fra le due illustri personalità, unite dalla volontà di garantire diritti alle persone più deboli e superare le barriere dell’integralismo e delle differenze religiose.