Pubblicato il: 12 Febbraio 2018

L’Uomo di Davos

A Davos ogni anno una ristretta élite si riunisce per decidere le sorti del resto del mondo.


E’ il prototipo dell’uomo influente e di potere, appartenente a quell’elite aristocratica liberale che crede nella democrazia e nelle leggi del libero mercato e tira le redini dell’economia e della politica globale. Un tempo era per lo più uomo dell’Occidente, soprattutto statunitense.

Con l’espressione Uomo di Davos, Samuel Huntington, scienziato politico americano, una delle più influenti voci analitiche del Ventesimo secolo, ha quindi definito il partecipante tipo al Forum Economico Mondiale che si tiene ogni anno a fine gennaio nella cittadina svizzera di Davos per discutere delle principali questioni globali di ordine politico, economico e sociale.

Il Forum, nato nel 1971 per iniziativa di un economista svizzero nella forma di organizzazione noprofit, è  il simposio elettivo dove capi di stato e di governo, vertici di istituzioni pubbliche, organizzazioni internazionali e imprese private, accademici, intellettuali e personalità di spicco, si incontrano annualmente per affrontare le grandi tematiche del mondo contemporaneo globalizzato. Dalla povertà, al cambiamento climatico, ai conflitti fra stati, e poi  le disuguaglianze, i flussi migratori, le crisi finanziarie, il terrorismo internazionale, la rinascita dei populismi e dei nuovi nazionalismi. Fino ad arrivare a discutere della crisi del modello stesso di globalizzazione con l’esplosione dell’ondata di protezionismo portata in primo luogo dall’America di Trump e di quella che viene definita la Rivoluzione digitale, con  il sopravvento monopolistico che colossi statunitensi stanno assumendo nel mercato dell’informazione e della gestione dei dati.

Il Forum quest’anno ha aperto le porte a ospiti di eccezione, quali il Presidente della Commissione Europea Junker e il Presidente degli Stati Uniti, nonchè il premier Indiano Narendra Modì, che ha tenuto il discorso di apertura, come l’anno scorso aveva fatto il Presidente della Repubblica Cinese Xi Jinping, e i rappresentanti dei principali stati europei.

Ognuno ha manifestato con chiarezza le proprie posizioni.

Trump non ha smentito il paradigma dell’America First, cavallo di battaglia della sua presidenza. La nuova forma di protezionismo di cui si fa fervente condottiero, si manifesta, nella visione del presidente, con la necessità di imporre dazi doganali sulle merci provenienti soprattutto dalla Cina e Caraibi, con l’astensione alla partecipazione ai trattati internazionali sul clima, e in generale con l’abdicazione da quel ruolo di catalizzatore che ha da sempre caratterizzato gli Stati Uniti.

Oggi la parola d’ordine è l’America agli Americani, principio che verrà però portato avanti con la firma di trattati multilaterali.

In contrapposizione si pone l’asse Germania-Francia. Con parole aspre e cristalline, Angela Merkel e Immanuel Macron sostengono che il protezionismo e l'isolazionismo non possono essere la risposta alle sfide globali, ma che sia piuttosto necessaria la ricerca, per quanto ardua allo stato attuale, di soluzioni multilaterali e cooperative. La Cancelliera e il Presidente della Repubblica francese hanno ribadito poi la necessità di un’Europa unita, che riscopra i suoi valori d’origine, e si ponga come baluardo di fronte all’avanzare dei flussi migratori e alla rinascita dei particolarismi e dei populismi che stanno sempre più prendendo piede sul suolo europeo.

Nello stesso tempo, anche il premier indiano gioca la sua parte strategica e con grande abilità retorica, come già aveva fatto il presidente cinese l’anno scorso, si scaglia contro il nuovo protezionismo americano e rivendica la necessità di una nuova forma di globalizzazione che porti benefici non solo all’Occidente. Gli equilibri si stanno rovesciando e sono sempre più contraddittori, se si considera, fra l’altro, che in India si stanno moltiplicando le manifestazioni contro i prodotti cinesi di esportazione che oramai dominano il mercato.

Con l’America che fa un passo indietro, si stagliano due giganti dormienti in attesa di prendere il suo posto, facendosi paladini di una seconda fase della globalizzazione, quella non universale, ma frammentata in diversi blocchi regionali e orientata verso Est.

Una globalizzazione che, tuttavia, non mostra ancora alcuna realistica intenzione di affrontare quella che è la sua principale conseguenza, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze e un’estrema e sempre più iniqua concentrazione della ricchezza nelle mani di quell’1% della popolazione mondiale che detiene le risorse del restante 99%.

E quell’1% era, e di fatto è sempre stato, tutto concentrato a Davos.