Pubblicato il: 18 Novembre 2014
Così viene chiamata la nuova dottrina economica ideata da Thomas Piketty, economista quarantenne francese, professore alla Paris School of Economics fino ad ora poco noto nel panorama dei grandi nomi dell’economia mondiale e diventato nell’arco di poche settimane, grazie alla recente pubblicazione della sua colossale opera “Il Capitale del Ventunesimo secolo”, uno dei personaggi pubblici più acclamati, osannati, ricercati, ultra citati e ultra criticati dall’establishment dei media, dell’accademia e della politica.
La “rock star dell’economia”, “il nuovo Marx”, così come molti lo chiamano, si è reso protagonista di quello che orami viene considerato il contributo scientifico in ambito economico più importante degli ultimi decenni, un vero e proprio fenomeno di massa, best seller planetario, al primo posto nelle vendite su Amazon, con oltre mezzo milione di copie vendute negli Stati Uniti, duecento mila in Francia e quasi quaranta mila in Italia, in meno di due mesi dalla pubblicazione. Cifre incredibili se si pensa che non è un romanzo, ma un complesso testo universitario di economia politica. Nonché un’inconfutabile fotografia del capitalismo contemporaneo, che analizza l’evoluzione della ricchezza e della disuguaglianza sociale ed economica nel corso degli ultimi due secoli, giungendo a rivelare i meccanismi intrinseci delle società attuali e interrogandosi sulle prospettive future.
Questo voluminoso tomo di quasi mille pagine alterna teorie economiche, classici della letteratura, parabole storiche, concetti filosofici e dottrine politiche, a fitte pagine di dati, tabelle ed equazioni, frutto di vent’anni anni di studio di Piketty e del suo gruppo di ricerca.
Economista atipico, additato da molti come idealista a causa dell’impraticabilità delle soluzioni proposte che, sempre secondo i suoi detrattori, nemmeno il rigorismo scientifico del metodo di analisi utilizzato riesce a giustificare, Piketty deve fondamentalmente il segreto del suo successo all’aver saputo cogliere uno dei più angosciosi aspetti della società attuale proprio in un momento in cui la società stessa sembra pronta ad ascoltare e soprattutto con parole che pare essere disposta ad accettare. Dopo tanti anni di crisi, dopo innumerevoli politiche intraprese, dopo una grande quantità di studi, anche da parte di voci del tutto autorevoli come Stiglitz e Krugman, premi Nobel per l’economia, che hanno peraltro speso commenti entusiastici per il nuovo “Capitale”, Piketty è riuscito ad aprire una breccia nel cuore del dibattito politico, offrendo uno sguardo nuovo che serva da spunto di riflessione. E lo fa da intellettuale e scienziato, peccando forse di un’eccesiva dose di utopia, ma sicuramente non da populista, come tanto va di moda oggigiorno.
Ma cosa accomuna il giovane economista francese all’intellettuale barbuto tedesco, la cui opera ha sorretto la struttura di uno dei principali dogmi politici, sociali ed economici dell’età contemporanea? In primis l’impostazione metodologica, secondo cui Piketty, come il suo illustre antenato, non si limita soltanto ad un trattato di economia, ma espone con grande completezza le caratteristiche più generali della moderna società capitalistica e dei rapporti che intercorrono tra i suoi componenti.
Tuttavia, ad accomunare davvero i due testi risulta soprattutto l’approccio “materialista”, storico e multidisciplinare della ricerca, che considera come determinanti per lo sviluppo della storia umana quei fattori strutturali della società, fondamentalmente economici, che hanno contribuito alla creazione dell’ordine sociale esistente. E, infine, anche l’onnipresenza del “capitale”, il grande protagonista dell’evoluzione umana, che Piketty utilizza come sinonimo di “wealth”, patrimonio o ricchezza. Piketty giunge alla conclusione teorica secondo cui, quando il tasso di rendimento del capitale supera il saggio di crescita dell’economia reale, come avviene oggi a causa della crisi economica mondiale, la ricchezza tende a concentrarsi nelle mani di pochi detentori, la società diventa statica, con scarsa mobilità sociale tra le classi e le diseguaglianze economiche aumentano tanto da risultare “incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche”. Infatti, quando “l’imprenditore tende a diventare un rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento della produzione e il passato divora il futuro”. Come a dire: in una società in cui la ricchezza deriva principalmente dalle rendite e dai patrimoni, cosa ci può aspettare se non il ritorno ad un’oligarchia ereditaria, ad un capitalismo ottocentesco di tipo patrimoniale, come quello precedente le due guerre mondiali e caratteristico dei romanzi di Jane Austen e Balzac, più volte citati da Piketty, in cui “qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio”?
La proposta contenuta nel libro per deragliare da questo percorso si traduce nell’imposizione di una tassa patrimoniale globale sulle rendite più elevate, che generi più trasparenza sui redditi e sulla ricchezza privata, attraverso un coordinamento a livello europeo e internazionale per evitare la fuga dei capitali nei paradisi fiscali. Le cause della disuguaglianza individuate da Piketty e soprattutto le misure proposte per la risoluzione del problema, sono state quindi accolte come un’eresia e un’utopia nel mondo neoliberista e da accademici e politici, tanto da far valere all’economista francese la pesante accusa di essere un socialista o peggio ancora un comunista. Accusa del tutto infondata essendo Piketty il primo critico di Marx, giudicato poco lungimirante nel non aver tenuto in debito conto la possibilità di una crescita impetuosa dell’economia e la diffusione della conoscenza o, in altri termini, di non aver considerato la crescita di una classe media agiata e il conseguente allargamento del benessere.
Ma ciò che risulta davvero interessante del libro di Piketty e della sua “Pikettynomics”, è l’aver nuovamente “politicizzato” l’economia, spingendo gli economisti ad uscire fuori dalle gabbie dei numeri, dalle stanze accademiche, dai libri scritti in “economichese” ed invitandoli a dibattere pubblicamente i risultati delle ricerche, impegnandosi in prima persona nella società.
“Non aver paura di pensare in grande”, questo è il monito e la speranza di Piketty per il futuro dell’economia e della politica, anche a costo di qualche cedimento nella fattibilità dei risultati, cercando di svincolarsi dall’ossessione dell’analisi econometrica che, se tanto risulta necessaria, conduce però spesso a perdere la complessità delle trame generali.