Pubblicato il: 04 Maggio 2020
Quanto è strano vivere in un tempo in cui si sta facendo la storia.
Ne sei parte, la osservi, questa nuova storia, ne insegui le evoluzioni, ti adatti ai cambiamenti, cerchi di comprenderli, di connettere i punti, per poi renderti conto che è ancora tutto troppo mutevole per tracciarne delle linee.
“Solo una crisi, reale o percepita, produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee che circolano in quel momento”.
Sembra una delle tante frasi motivazionali che riempiono oggigiorno le bachehe dei social, eppure non è stata scritta su Instagram da qualche poeta delle colazioni perfette, ma è Milton Friedman che parla, il padre indiscusso e controverso dell’ultraliberismo, uno dei maggiori economisti del secolo scorso. Ispiratore delle politiche del duo Thatcher-Reagan negli anni ’90 e indirettamente, nonchè involontariamente, concausa della crisi economica del 2008, con la recessione che ne è seguita e gli anni bui delle politiche di austerity, quando si cercava di far quadrare conti a suon di controlli, tassazione e rigore.
Friedman, critico crudele dell’altro grande venerabile, John Maynard Keynes, capostipite della macroeconomia, forse il più influente tra gli economisti del Ventesimo secolo, creatore di quella scuola di pensiero che prende il suo nome e che sostiene la necessità, in periodi di crisi, dell'intervento statale nell'economia per il sostegno della domanda aggregata, soprattutto tramite un incremento della spesa pubblica. Una necessità immediata, da colmare con interventi mirati di breve periodo, perchè, come lo stesso Keynes sosteneva in un famoso detto, “nel lungo periodo saremo tutti morti”. La sua ricetta ha ispirato il New Deal, a seguito della grande crisi del 1930, e ha di fatto predisposto le condizioni per l’esponenziale crescita economica degli Stati Uniti negli anni successivi, veicolando un senso di ottimismo e fiducia diffusa, non solo nel popolo americano.
L’onda d’urto dell’epidemia in corso sta dimostrando avere effetti potenti su tutti i fronti, economico, politico, sociale, umano, nazionale, internazionale, globale.
Il lockdown, parola che fino a tre mesi fa non veniva nemmeno contemplata come esistente nel nostro vocabolario immaginativo, con il blocco totale di ogni attività economica, ha avuto il duplice effetto di ripercuotersi sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Con la riduzione contemporanea a livello mondiale della produzione, delle vendite, degli acquisti e di ogni forma di scambio, ha causato una forte contrazione dell’occupazione, dei redditi, del consumo e del benessere.
La ricetta per uscire dalla più grande emergenza in tempo di pace, non può più essere solo l’austerity, nè, solo, una qualche nuova formulazione del New Deal, ma dovrà contemplare una mistura di ingredienti che dovranno tenere in conto dell’eccezionalità di una situazione della quale nessuno ha colpa, che nessuno ha mai vissuto prima, e per la quale non ci sono soluzioni univoche.
Tenendo bene a mente che questa ricetta non potrà essere solo di tipo economico, poichè ciò che è stato messo in discussione con l’avvento del virus va ben oltre la necessità monetaria, seppur prioritaria e fondamentale.
E’ nella natura stessa delle emergenze e delle crisi sistemiche accelerare i processi storici, eliminare alcune tendenze, consolidarne altre, crearne altre ancora.
Dunque, dicendola con Friedman, ci si interroga ora su quali siano queste tendenze e su quali idee poggiano, nel tentativo di comprendere quali potranno prevalere, e su quali binari, a livello geopolitico, stanno correndo i cambiamenti che necessariamente avverranno a livello globale, e che forse stanno già avvenendo. Sono domande.
I governi dovranno accettare di svolgere un ruolo più attivo nell’economia e nella gestione dello stato? Dovranno riammodernare il mercato del lavoro riconsiderandone non solo le modalità di svolgimento, ma anche la natura stessa della precarietà e della flessibilità oramai consolidatesi come caratteristiche peculiari?
La ridistribuzione tornerà al centro del dibattito, assieme a politiche socioassistenziali accessibili, garantite e più egualitarie?
Ci si arrenderà finalmente all’evidenza, come questa pandemia ha messo in luce, che il cambiamento climatico è la vera questione da affrontare con azioni immediate a livello globale?
E quali saranno i nuovi futuri assetti geopolitici, con la Cina che non nasconde l’ambizione di colmare il ruolo di leadership che gli Stati Uniti stanno sempre più lasciando vacante?
Quegli Stati Uniti che sono sempre più chiusi in loro stessi, sempre più inclini alla delegittimazione degli organismi della cooperazione internazionale, in aperto contrasto con il grande competitor asiatico, che predicano il rifiuto di ogni responsabilità nella lotta ai cambiamenti climatici, e che mostrano un’apparente indifferenza per le macroscopiche brutali disuguaglianze sociali che la crisi coronavirus ha reso impietosamente visibili.
Un’America, per di più, alle prese con delle elezioni cruciali alle porte, che tracceranno il percorso per gli anni futuri. Quale sarà l’influenza della pandemia sulle scelte degli americani?
E quale sarà l’impatto sui paesi in via di sviluppo, che si trovano, fra l’altro, nella disumana scelta di salvare vite dal virus, e contemporaneamente farle morire di fame e di stenti, nelle mani di leader autoritari e populisti?
E cosa accadrà alla globalizzazione, quel sistema di connessione e interconnessione economica e sociale che ha permeato il mondo per come è ora, in aperto contrasto con le necessità di controllo del virus, che impongono distanza e localismo?
E in ambito europeo, quale ruolo deciderà di assumere l’Unione, con le sue consuete divisioni, lentezze, incongruenze, con le differenze che hanno contraddistinto i paesi nella gestione della crisi, e con il fiato dei suoi detrattori costantemente sul collo?
Si rafforzerà, come sempre, il ruolo della Germania come capofila, della Francia come fedele alleata, e dell’Italia e della Spagna come le due sorelle minori bisognose d’aiuto?
E che ne sarà del Regno Unito, oramai fuori dai giochi europei, con il triste e poco onerevole primato di nazione d’Europa con la mortalità più alta, con una leadership che ha lasciato senza parole per la contradditorietà, e in certi casi la pericolosità, dei messaggi soprattutto nelle prime fasi della crisi.
“E’ necessario sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventi politicamente inevitabile”, conclude Friedman.
In un contesto come questo le sue parole suonano più che appropriate.
Ogni crisi genera una spinta forzata al cambiamento, e la posta in gioco ora è molto alta, così alta da poter definire gli equilibri o gli squilibri di molti anni a venire.
Si esce da una crisi sempre un pò diversi da prima, qualcosa è stato perso e fa male, qualcosa non ha più senso di esistere e bisogna abbandonarlo, qualcos’altro è nato e qualcos’altro ancora nascerà.
Alla fine, è il ciclo della vita.
Ciò che davvero conta, ora, non è, subito, trovare le risposte, ma è porsi le giuste domande.