Pubblicato il: 28 Ottobre 2013
I Guarani sono uno dei popoli nativi più antichi del Sud America. Un popolo pacifico di agricoltori, fortemente ancorati alla natura, alla quale sono legati da un sentimento di venerazione divina. Quando gli Europei arrivarono a colonizzare quelle zone, circa 500 anni fa, i Guarani contavano oltre un milione e mezzo di persone e occupavano spazi incontaminati di foreste e pianure. Oggi ne sopravvivono poche decine di migliaia che vivono ammassate in anguste porzioni di terra, ridotti in uno stato di miseria materiale e morale, privati della libertà e di ogni diritto. Ondate successive di deforestazione hanno convertito quelli che un tempo erano i loro territori in un fitto tessuto di ranch e piantagioni di soia e canna da zucchero destinati alla produzione di bioetanolo, combustibile di cui, da decenni, il Brasile è uno dei più grandi produttori ed esportatori al mondo. Per sopravvivere, il popolo guarano è costretto a cercare lavoro come manovalanza stagionale nelle piantagioni e nelle distillerie d’alcol che occupano i loro territori, venendo sfruttati e trattati come schiavi dai latifondisti locali.
E l’Occidente si deve sentire doppiamente responsabile. Per l’atto di sopraffazione avvenuto 500 anni fa e per lo sfruttamento che ancora perpetra ai danni di questi e di molti altri popoli ridotti nelle stesse condizioni, dai cui paesi acquista prodotti necessari al proprio consumo. Esiste inoltre un terzo motivo di sdegno. La produzione di bioetanolo ricavato dalle coltivazioni di canna da zucchero che sorgono sulle terre dei Guarani rientra nei piani dell’Occidente, Europa e Stati Uniti in particolare, per trovare alternative al petrolio nel settore dei trasporti, derivanti da fonti rinnovabili e ambientalmente meno impattanti.
Al settore dei trasporti, il secondo in termini di impatto emissivo dopo quello energetico, è imputabile circa un quarto delle emissioni di gas serra a livello globale. Secondo le stime ufficiali dell’Unione Europea, mentre le emissioni provenienti dagli altri settori sono generalmente in calo, quelle derivanti dai trasporti sono aumentate del 36% dal 1990. La principale soluzione su cui finora l’Europa e gli Stati Uniti hanno fortemente investito è stata la produzione di biocarburanti derivanti dalla trasformazione chimica di colture agricole come mais, soia, canna da zucchero e oli vegetali.
Le reazioni non hanno tardato ad arrivare. Sin dal 2008, quando il boom della produzione di biofuel era ancora in fase embrionale, associazioni ambientaliste ed umanitarie, come la FAO e Action Aid, e sempre di più anche la comunità scientifica, hanno sollevato forti critiche in merito all’impatto ambientale ed economico dei biocombustibili e alla resa netta in termini riduzione delle emissioni.
Il principale motivo di discussione riguarda la competizione tra biocombustibili e approvvigionamento alimentare. Secondo recenti studi della FAO, dell’agenzia di consulenza Ecofys e della stessa Commissione Europea, l’incremento nell’utilizzo di terre per colture destinate alla conversione in biocombustibili ha determinato preoccupanti conseguenze soprattutto per i Paesi in via di sviluppo, provocando un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime e un aggravamento della situazione alimentare dei paesi in cui i biocombustibili stessi sono prodotti.
La necessità di ottenere nuovi terreni per la produzione di biocombustibili ha peraltro incentivato il disboscamento e il prosciugamento delle torbiere nonché un impoverimento dei suoli che, essendo soggetti sempre alle stesse colture, perdono la propria capacità di rigenerazione.
Nell’ottobre del 2012 la Commissione Europea ha quindi proposto di stabilire un tetto massimo del 5% per i biocarburanti di prima generazione, quelli derivanti da colture agricole alimentari, in relazione all’obiettivo del 10% di energia da fonti rinnovabili da raggiungere nel settore dei trasporti entro il 2020. Esattamente un anno dopo il Parlamento ha approvato tale disegno, correggendo però al rialzo il tetto di riduzione che è stato portato al 6%. Importanti risultati si sono ottenuti anche per quanto riguarda lo sviluppo dei cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, slegati dalle necessità alimentari, la cui quota di contribuzione è stata fissata al 2,5%. Essi sono ottenuti da biomasse di scarto della produzione agricola, agro-forestale, dalla parte organica dei rifiuti urbani e dell’allevamento e da processi di lavorazione chimica delle alghe. Il Parlamento ha inoltre introdotto il cosiddetto fattore “ILUC”, Indirect Land Use Change, una sorta di valutazione dell’impatto e dei benefici ambientali dei biocarburanti, considerando l’intero ciclo di vita dalla produzione al consumo.
Grazie a una selezione delle biomasse disponibili localmente i biocarburanti di seconda generazione possono essere sviluppati sotto l’ala di un rapporto forte con il territorio.
In tale settore l’Italia vanta un primato. A Crescentino, vicino Vercelli, in Piemonte, è stato costruito il primo impianto al mondo per la produzione di bioetanolo di seconda generazione da biomasse non alimentari, sfruttando prodotti agricoli residuali. La bioraffineria, di proprietà della Beta Renewables, joint venture italiana, statunitense e danese che ha puntato sulla chimica sostenibile, è frutto di un investimento da 150 milioni di euro, peraltro sostenuto dalla Commissione Europea nell’ambito del Settimo Programma Quadro per la Ricerca e lo Sviluppo. Il progetto ha portato l’Italia a conquistare una posizione di avanguardia tecnologica a livello mondiale, in un settore industriale strategico.
Quello dei biocarburanti di seconda generazione rappresenta quindi un mercato ad elevato potenziale economico e occupazionale e la chimica sostenibile costituisce sicuramente uno dei settori chiave per la ripresa economica. Risulta quindi necessario incrementare gli investimenti per la ricerca tecnologica e la formazione di expertise in tale settore, che porterebbe ad un circolo virtuoso di innovazione e sviluppo territoriale, nell’ottica di un rilancio dell’economia.
La prospettiva di ricavare energia dai prodotti di scarto va inoltre nell’ottica di una sempre maggiore sostenibilità e di una valorizzazione di ogni aspetto della catena alimentare.
Oltre a questioni di ordine etico e ambientale, la problematica dei biocarburanti fa emergere tutta la complessità della scelta delle politiche per la lotta al cambiamento climatico, in cui nessuna risulta ottimale se considerata separatamente.
La necessità dell’adozione di una visione di insieme dovrebbe pertanto prevedere una combinazione di soluzioni che accostino, per quanto riguarda il settore di trasporti, alla produzione sostenibile di combustibili a minore impatto emissivo, anche progetti di mobilità elettrica, miglioramento del trasporto pubblico ed efficienza energetica.