Pubblicato il: 19 Dicembre 2019
Iniziata lunedì 2 dicembre, la conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite ha deluso le aspettative di molti. Si è conclusa con un timido appello a “sforzi più ambiziosi” e un testo che ribadisce “la necessità urgente” di aumentare i tagli alle emissioni, senza nessuna intesa in merito all’Articolo 6 dell'Accordo di Parigi sulla regolazione globale del mercato del carbonio, il nodo più difficile da sciogliere. Secondo quanto previsto dall’Accordo di Parigi, entro fine 2020, tutti i Paesi dovranno presentare nuovi Piani Nazionali per la riduzione delle emissioni e dovranno impegnarsi a ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas a effetto serra del 45% rispetto ai livelli del 2010, per raggiungere il livello zero di emissioni nette entro il 2050.
Gli Stati Uniti, che hanno ora avviato formalmente le procedure per uscire dall’Accordo, ma anche Arabia Saudita, Australia e Russia si sono distinti per l’opposizione strenua a maggiori tagli delle emissioni e il Brasile ha espresso specificamente contrarietà alla messa in atto dell’Articolo 6.
Questo ha l’obiettivo di rafforzare le ambizioni dei paesi in merito alla riduzione e al contenimento delle emissioni di gas serra, attraverso i cosiddetti Nationally Determined Contributions, cioè la percentuale di quote di emissioni che uno stato si impegna a ridurre a livello volontario. In particolare, l’Articolo si riferisce al rafforzamento dei meccanismi di mercato come strategia globale per la riduzione delle emissioni, che consentirebbe ai paesi, come già accade per il sistema di emission trading a livello europeo, di partecipare ad un meccanismo di compravendita delle emissioni di CO2. Le regole che valgono per il sistema ETS, ovvero la presenza di un obiettivo di riduzione, una quantità massima di quote a disposizione e la necessità di mantenere un prezzo delle quote sufficientemente elevato per garantire l’efficienza economica del sistema, si applicherebbero anche al mercato globale che l’Articolo 6 vorrebbe costruire.
L’Articolo avrebbe inoltre il vantaggio di offrire un percorso che dovrebbe coinvolgere anche il settore privato, impegnato nella riduzione volontaria delle emissioni e potrebbe anche consentire alle compagnie aeree di partecipare al sistema di scambio acquistando le quote dai paesi coinvolti e usarle per aderire allo schema globale di compensazione delle emissioni, il sistema Corsia, promosso dalle Nazioni Unite e in vigore dal 2021. Le questioni più ampie sollevate dall’Articolo 6 si inseriscono poi nel contesto della distribuzione delle responsabilità fra i paesi sviluppati, che hanno contribuito più notevolmente al cambiamento climatico e i paesi in via di sviluppo, e la conseguente ripartizione dell’onere di riduzione, nonché poi tutti gli aspetti più strettamente finanziari dell’Accordo di Parigi, fra cui i meccanismi necessari per evitare la rilocalizzazione delle emissioni e quelli atti a sostenere i paesi a maggiore rischio ambientale. Unico, vago, aspetto positivo dell’incontro è stata l’adozione di un Gender Action Plan quinquennale, che servirà per affrontare molte delle preoccupazioni sollevate dalle donne e dai gruppi di pressione di genere, che chiedono la tutela per le fasce più vulnerabili della società.
Ma inutile, tutto è stato rinviato alla Cop26 di Glasgow, il prossimo novembre.
Di fatto, in 25 anni di presenza di queste riunioni globali sul cambiamento climatico, solo due volte sono stati raggiunti risultati concreti. La prima, nel 1997, quando a Kyoto è stato firmato il Protocollo omonimo che è diventato il principale trattato ambientale internazionale, e nel 2015, quando a Parigi è stato sottoscritto il Trattato che andrà a sostituire Kyoto nel 2020, completandolo e ampliandolo. Firmato da tutte le nazioni mondiali l’Accordo di Parigi formalizza l’impegno globale a non superare i 2 gradi di temperatura atmosferica, la soglia massima per la sopravvivenza dell’ecosistema alle attuali condizioni, ma poi, quegli stessi Stati Uniti che l’avevano promosso e sostenuto, hanno dichiarato l’intenzione di uscirne quando alla guida del paese è arrivato Donald Trump.
Risonanza ha avuto anche il meeting di Copenaghen nel 2009, che fu di sicuro un successo mediatico, per la presenza forte del neoeletto Barack Obama, presentatosi come paladino della giustizia ambientale, ma una delusione in termini di concretezza politica.
Buona notizia però dal fronte europeo, nonostante il ritardo nell’insediamento della Commissione, l’UE è stata tra le poche grandi potenze ad aver compreso che lo sviluppo può passare solo per la sostenibilità. Con la nuova e pionieristica politica del Green New Deal ha confermato l’intenzione di accelerare il processo di decarbonizzazione aggiornando il suo obiettivo a lungo termine di raggiungere zero emissioni nette entro il 2050 ed accrescere il target 2030 ad almeno il 50 per cento di riduzione. Una tale ambizione richiederà la revisione di tutte le misure legislative in atto in ambito ambientale ed energetico, e soprattutto il superamento dell’ostilità dei paesi sovranisti in sede di Parlamento e Consiglio Europeo.
Ovviamente non è mancata la pressione sociale dei ragazzi di Fridays For Future e della loro portavoce Greta Thunberg, arrivata a Madrid dopo aver navigato attraverso l’Oceano Atlantico, accolta dalla folla come una star da red carpet.
“Il cambiamento di cui abbiamo bisogno non arriverà da quelli al potere”, ha detto Greta. “Il cambiamento verrà dalle persone e dalle masse che lo chiedono”.
Come darle torto, non resta che continuare a sperare.