Pubblicato il: 29 Dicembre 2021
Si chiama Vanessa Nakate, vive a Kampala, la capitale dell’Uganda, uno dei paesi più poveri dell’Africa, ed la più nota attivista per l’ambiente del momento.
Parla di giustizia climatica e delle responsabilità che il nord globalizzato deve assumersi nei confronti del continente africano che pur emettendo meno del 3% delle emissioni globali, sta subendo le conseguenze maggiori del cambiamento climatico.
Proveniente da una buona famiglia di Kampala, istruita e destinata ad un futuro radioso come neolaureata in economia aziendale, Vanessa è stata sempre molto attenta e interessata alle questioni ambientali e alle sofferenze del suo paese, ma non avrebbe mai pensato di partecipare ad una protesta di strada, come organizzatrice. Era timida, ed era una ragazza, in un paese dove le voci femminili faticano ad esporsi.
Tutto è iniziato i primi giorni del 2019, quando qualcosa dentro di lei è scattato.
Un sabato, forse per un senso di responsabilità nei confronti del suo paese duramente colpito da uragani sempre più forti, cicloni, inondazioni devastanti, frane, siccità, invasioni di locuste, forse sempre più affascinata da Greta Thunberg e dai suoi Fridays for Future, Vanessa decide di uscire di casa e accompagnata dai suoi fratelli, scende nelle strade della sua città agitando davanti ai passanti cartelli che recitavano “La natura è vita”, “Sciopero ora”, “Quando pianti un albero, pianti una foresta”.
Così è diventata un personaggio pubblico, supportata dalla famiglia e, cavalcando un fenomeno oramai consolidato come l’attivismo ambientale giovanile, in particolare femminile, è riuscita a portare il punto di vista dell’Africa nelle discussioni sul clima.
Ha continuato a studiare il fenomeno del cambiamento climatico, delle sue cause e delle sue conseguenze attraverso l’attivismo, ha letto i report dell’IPCC, ha compreso il ruolo dei combustibili fossili nell’aumento delle emissioni e della temperatura globale.
Ha fondato Youth for Future Africa, un movimento per accrescere la consapevolezza dei giovani africani sulla crisi climatica, che in seguito si è trasformato nel movimento Rise Up, ha organizzato scioperi con gli studenti, ha guidato una campagna per la riforestazione del Congo, ha lottato contro l’inquinamento atmosferico a Kampala, l’innalzamento delle acque nel Lago Vittoria e i finanziamenti
alle compagnie petrolifere del carbone, ha visitato le scuole per sensibilizzare alla tematica del clima, delle energie rinnovabili e dei comportamenti sostenibili.
Nel febbraio 2020 è stata presente al World Economic Forum di Davos, dove ha tenuto il suo primo discorso in un contesto internazionale. Occasione in cui l’Associated Press ha commesso il drammatico errore, salvo poi profondersi in umili scuse, di tagliarla fuori dalla foto ufficiale in cui veniva ritratta con le altre attiviste del clima Luisa Neubauer, Greta Thunberg, Isabelle Axelsson e Loukina Tille.
Ha parlato alla COP25 e alla COP26 ed è stata accanto a Ban Ki-moon, l'ex segretario generale dell'ONU, al Forum europeo di Alpbach, un meeeting internazionale si tiene in Austria ogni anno dal 1945 e che riunisce grandi personalità politiche e pensatori di spicco per discutere su temi economici, politici, scientifici e ambientali.
Ha appena pubblicato “A Bigger Picture: My Fight to Bring a New African Voice to the Climate Crisis”, in parte un libro di memorie, ma soprattutto una chiamata alle armi.
Un libro davvero denso di gergo tecnico e di concetti come "ambientalismo intersezionale", che collega l'ingiustizia sociale al cambiamento climatico, mettendo in luce la contrapposizione storica fra nord e sud del mondo relativamente all’onere del costo economico del disinquinamento.
Ciò che Vanessa sta cercando di aggiungere all'agenda globale è il concetto di perdita e danno, ovvero la traduzione in risarcimento monetario di quanto le emissioni del mondo sviluppato stiano costando al mondo in via di sviluppo in termini di perdite e danni. Vanessa si sta battendo affinchè questo denaro venga concepito non come aiuto, ma come riparazione, sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti, in un’ottica antimperialista, affinchè non si aggiunga un ulteriore carico al debito già esistente del sud globale.
Dati i risultati insoddisfacenti della COP26 in questo ambito di giustizia climatica, si ripongono ora dunque le speranze per la COP27 del prossimo anno in Egitto, dove la voce della giovane attivista africana diventerà sicuramente ancora più rilevante.